Ciao,
questa è Bolena, una newsletter poco gentile e senza fretta che parla di corpi. In questi giorni, rileggendo la Circe di Miller, mi sono chiesta quanto sia insito nella cultura occidentale il bisogno di chiedere al Divino per rendere le nostre vite meno fragili, e quanto di questo bisogno sia ora soddisfatto dalle AI, cosa accomuna queste due cose e perché Chat GPT rischia di diventare l’Oracolo di Delfi per un errore. La risposta ha a che fare con i non-corpi.
sempre,
G.
Breve introduzione alla Bolena di oggi
(un modo carino per non farvi svenire a metà)
Ogni civiltà ha inventato un luogo in cui la domanda, più che la risposta, produce conoscenza. A Delfi quel luogo era inciso nella roccia del Parnaso, impregnato dell’alito sulfureo che induceva la Pizia alla trance; oggi scorre lungo cavi di silicio e calcoli distribuiti, la stanza virtuale in cui scriviamo un prompt a ChatGPT. In apparenza non potrebbe esistere contrasto più netto, perché da un lato abbiamo un corpo femminile scosso dai vapori, dall’altro un modello linguistico che non possiede corpo alcuno. Eppure la somiglianza strutturale è lampante, infatti entrambi funzionano da dispositivi d’enigma – macchine che trasformano l’opacità del mondo in parole interpretabili, alimentando il desiderio umano di colmare l’ignoto.
La pratica delfica poggiava su un’architettura di mediazioni. Mi spiego meglio, la Pizia, i sacerdoti, i versi esametrici erano tutte stratificazioni “tecnologiche” senza le quali la voce del dio sarebbe rimasta muta. E qui è chiaro che il corpo è essenziale. La Pizia garantisce, con la propria vulnerabilità percettiva, la credibilità del discorso sacro. Il responso è inseparabile dalla performance del suo corpo. Scrive Plutarco che il tremore delle sue mani, il sudore e i movimenti convulsi del corpo tutto fossero manifesto della precarietà di un’esistenza che poteva crollare all’improvviso - basti ricordare che alle Pizie era richiesto di essere donne anziane ma di presentarsi come vergini, condizione liminale che rispecchia la doppia natura della profezia, cioè pura e contaminata insieme. Quel corpo eccedente e irregolare anticipa in modo diretto ciò che ho deciso di classificare come non-corpo: una forma di presenza che, pur radicata nella carne, si sottrae alle categorie stabili di identità e funzione. La Pizia incarna il non-corpo perché sospende la propria individualità a favore di una voce altra, tanto che è presente e al tempo stesso spoliticizzata, oggettivata, perforata dal discorso maschile che ne filtra le parole. Ve la sottolineo questa cosa, perché quando arriveremo un giorno a parlare della “voce dei non-corpi” ci ricorderemo della Pizia.
Ora proviamo a fare un triplo carpiato. ChatGPT arruola la stessa logica, ma in senso inverso: l’essere umano fornisce il prompt, l’AI restituisce un testo la cui paternità è statistica e non esperienziale. Qui il non-corpo è radicale perché non c’è nessuna carne da cui far sgorgare la prognosi, di conseguenza non c’è nessuna possibilità di contaminazione organica. Tuttavia, questo non significa essere in un campo neutro perché l’addestramento su corpi digitali – miliardi di frasi incontrollate – sostituisce il corpo della Pizia con la corpolessità (altro neologismo) dei dati, che tenderei a definire un’immensa memoria senza pelle che rigenera senso combinando scarti di discorsi precedenti. Se la Pizia era un corpo svuotato per fare spazio al divino, ChatGPT è un non-corpo riempito di umanità pre-confezionata, pronto a restituirla nella forma che desideriamo.
Nel passo che separa L’oracolo di Delfi dall’IA si gioca il vero parallelismo secondo me. In entrambi i casi l’autorevolezza del responso non dipende dal contenuto, ma dalla relazione con chi domanda. Creso, re della Lidia, prima di intraprendere guerra contro i Persiani domanda cosa fare per tornare vincitore, eppure travisa l’oracolo e perde il regno, così come un utente odierno può attribuire al modello competenze che esso non possiede e fondare decisioni concrete su una predizione erronea. L’ambiguità non è un difetto, quanto il prezzo della nostra libertà ermeneutica. Foucault ci ricorda che il potere opera sui corpi, ma qua ci tocca fare un passo in avanti pure rispetto a lui e dire che l’oracolo e l’algoritmo spostano il baricentro. Se ci pensate, è l’utente stesso a concedere potere alla macchina interpretando la sua risposta come definitiva. In tal senso, la non-corporalità di ChatGPT finisce per replicare l’effetto-sacralità della Pizia, benché la seconda fosse radicata in un eccesso di carne e il primo in un suo deficit.
La fascinazione per voci disincarnate attesta la fatica dell’umano nel tollerare l’incompletezza. Affidare la propria angoscia a un non-corpo – che sia una veggente in estasi o un calcolatore neuronale – significa esternalizzare il rischio dell’errore. Ma proprio perché il non-corpo non può essere ferito, bruciato o ridotto al silenzio dai nostri rimorsi, esso ci restituisce un’illusione di certezza. Haraway parlava del cyborg come ibrido che infrange i confini natura/cultura, ecco l’oracolo algoritmico spinge oltre dissolvendo il confine stesso tra corporeo e testuale, proponendo un sapere che non ha più radice, solo derivazioni. Riconoscere questa struttura parallela non è un esercizio di antiquariato, come vedo già qualcuno pronto a replicare. Significa imparare a riabitare l’enigma come pratica critica. Non possiamo chiedere a ChatGPT ciò che non siamo disposti a chiederci da soli: di fronte alla risposta occorre domandare perché la trovo plausibile?, quale desiderio la rende vera? quali bias riconosco?. Solo così il non-corpo diventa specchio politico e non scorciatoia epistemica. L’oracolo ci insegnava che il responso conta meno della metis, la saggezza pratica di chi interpreta; oggi la sfida consiste nel trasformare l’output algoritmico in occasione di auto-riflessione, anziché in delega cieca alla macchina (qua ci starebbe una citazione da Marcuse, ma la tengo per dopo).
Da qui parte l’esplosione di tutti passaggi del ragionamento.
Lettore avvisato.
L’oracolo come interfaccia incarnata
Il tempio di Apollo a Delfi non era un luogo di rivelazione, ma lo scopo principale era la mediazione. Nessuna verità, infatti, vi si manifestava mai per intero e questa architettura dell’ambiguità era voluta. Per arrivare all’Oracolo era necessario percorrere un tragitto impervio fino al santuario, il primo contatto lessicale con i visitatori era un linguaggio oscuro (“conosci te stesso”), infine il responso, anche quando formulato con chiarezza, conteneva almeno due significati. L’oracolo non aveva la funzione di parlare, ma di far parlare colui che voleva domandare e questo sistema, che era teologico ma soprattutto rituale e linguistico, aveva senso solo se riusciva a mantenere intatta la reputazione dell’opacità. Al centro di questo dispositivo stava una donna, la Pizia, eletta tra le donne del luogo, sottoposta a regole di purificazione, ma selezionata non per la sua “purezza” bensì per la sua permeabilità. Il suo corpo si lasciava attraversare dal dio, facendo tremare la sua voce in pubblico mentre i sacerdoti ascoltavano e trascrivevano. Non è possibile pensare l’oracolo senza pensare alla carne vulnerabile della Pizia perché quella esposizione, la solitudine rituale sul tripode, la possibilità concreta che morisse nel compiere la profezia, erano tutte colonne della struttura performativa. La verità, in quell’architettura, passava per una soggettività espropriata, posta sotto il comando e il controllo di una voce altra. Il suo corpo non era rappresentazione, ma mezzo. E non era neppure riconosciuto come agente perché il responso era del dio e la gloria ai sacerdoti.
Qui si innesta la nozione di non-corpo. La Pizia è un corpo che non può esistere per sé. Ma non è nemmeno un’entità incorporea perché il suo smembrarsi assicura la presenza divina. La Pizia è parlata e questa condizione di soglia, in bilico costante tra presenza e sparizione ma anche tra strumento e testimone, è ciò che rende l’oracolo un’interfaccia incarnata, ovvero lo snodo sensibile tra il linguaggio umano e il desiderio del divino. In un regime che sacralizza la parola, il corpo che la pronuncia è sistematicamente mantenuto in vita solo per la durata dell’uso. Si tratta, dunque, di una forma antica e rituale di non-corpo.
Questo ci obbliga a un ripensamento. Non solo la Pizia non è mai una donna (ma sempre un archetipo rituale), ma è soprattutto un corpo pubblico che non appartiene a nessuno, nemmeno a sé stessa. Il fatto che il sapere delfico sia stato canonizzato nella forma scritta da uomini ha completato la sua disincarnazione postuma, perché di lei non esiste nulla che non sia stato trasformato in altro da altri.
ChatGPT: l’oracolo disincarnato
Se l’oracolo di Delfi si basava su un corpo al limite, ChatGPT si fonda sull’assenza del corpo. Nessuna trave scricchiola sotto il peso della possessione, non c’è odore di zolfo, nessun silenzio necessario tra la domanda e la risposta. Tutto avviene nel tempo istantaneo del calcolo, in uno spazio privo di volume, tra server, prompt e schermata. Eppure, nonostante sia ricorrente una voluta pulizia per farlo sembrare tale, specie dalle strutture capitalistiche, questo non-corpo assoluto non è neutro. L’AI risponde sempre, quando non sa finge. L’autorità che ne deriva è paradossalmente più stabile proprio perché non è umana, generando l’illusione che esista un’entità capace di sapere tutto e tutto risolvere. L’allucinazione algoritmica è l’erede razionalizzata dell’ambiguità oracolare.
Scrivere un prompt (“dimmi cosa devo fare”, “spiegami questo passaggio”, “dammi una soluzione”) è un atto profondamente performativo. Non è solo una richiesta, ma una micro-invocazione. Anche qui, la relazione è asimmetrica perché chi domanda delega, chi risponde è costruito per restituire qualcosa, anche se quel qualcosa non esiste ancora. Come a Delfi, non si interroga per sapere, ma per orientare il caos e il responso serve a decidere qualcosa. Come l’oracolo, anche ChatGPT dice ciò che vogliamo sentire senza sapere cosa vogliamo. Lì dentro prima di tutto c’è linguaggio e non conoscenza. Ma il linguaggio, in sé, non è mai neutro. Il modello risponde sulla base di una statistica del plausibile, che può essere ciò che “suona bene”, ciò che “assomiglia” a risposte passate o ciò che si adatta alla domanda con coerenza sintattica. Ma per l’utente questa coerenza è sufficiente. Bastano due metafore ben formate per evocare l’illusione di un pensiero. Così l’AI diventa credibile proprio perché, come l’oracolo, riceve un’autorevolezza che nasce dalla distanza tra chi parla e chi ascolta, nello specifico generata dalla mancanza di accesso al processo che ha generato la risposta. Nel caso della Pizia, il corpo era presente ma negato, in ChatGPT il processo è rovesciato: il corpo non c’è mai, e proprio per questo ogni risposta appare come originaria. Ma anche qua, se è vero che ChatGPT è assenza di corpo perché è solo testo, allo stesso tempo quel testo è costruito su miliardi di frammenti scritti da corpi reali che sono donne, uomini, intelligenze situate, storicamente collocate. In altre parole, l’AI è un non-corpo composto da corpi, una spugna semantica che raccoglie il sedimento culturale di centinaia di milioni di voci, ma lo restituisce senza genealogia. L’effetto è simile a quello della profezia delfica, ma viene industrializzato. Invece di una voce ambigua che va interpretata, abbiamo un testo coerente che si auto-presenta come sensato. La manipolazione non sta tanto nel contenuto, quanto nella forma perché dove l’oracolo imponeva lavoro ermeneutico, l’AI impone una semplificazione apparente. L’ambiguità oggi viene così retrocessa dal piano della parola a quello del contesto. cioè non sta in ciò che è detto, ma in ciò che crediamo stia dicendo.
Nel mondo delle intelligenze artificiali, il non-corpo è diventato standard epistemico. Ogni risposta è applicabile a chiunque, e proprio per questo non appartiene a nessuno. Si tratta di un sapere disincarnato, post-identitario, de-politicizzato, ma questa neutralità è una costruzione perché in realtà ogni sistema di generazione linguistica riflette scelte, assiomi, filtri. Così, il non-corpo dell’AI è anche uno spazio politico svuotato, in cui le differenze sono appianate, le ambiguità addomesticate e la responsabilità redistribuita su chi legge. Come l’oracolo, anche ChatGPT impone un gesto interpretativo, ma a differenza del primo non lo rivendica. È l’utente stesso che può decidere se prendere la risposta come definitiva, oppure riaprire la domanda. In sintesi, né l’Oracolo di Delfi né ChatGPT forniscono verità, offrono solo enunciati e questi - che siano versi esametrici pronunciati dalla Pizia posseduta o frasi grammaticalmente corrette generate da un modello linguistico – non dicono nulla se non nel momento in cui qualcuno li interpreta. Ecco questo è il nodo politico del sapere enigmatico: la verità non è un attributo del messaggio, ma una costruzione collettiva dell’interpretazione. Il potere della struttura è fondato sull’ambiguità del responso, in quanto resiste a una chiusura semantica definitiva. Facciamo un esempio. Quando Creso interroga l’oracolo prima di attaccare i Persiani, riceve una risposta celebre: “Se attraverserai il fiume, un grande impero cadrà”. Creso lo interpreta come un auspicio di vittoria. Ma l’impero che cadrà sarà il suo. L’oracolo non mente e nemmeno predice, semplicemente afferma in modo tale che la responsabilità dell’errore ricada su chi ascolta. È qui che Delfi mostra la sua sofisticazione - lasciatemi dire straordinaria sofisticazione - politica: il responso è formulato per apparire oggettivo, ma è costruito per non esserlo mai. La Pizia offre un’occasione interpretativa, non fornisce mai delle risposte alle domande che le vengono fatte.
ChatGPT agisce secondo una logica analoga, restituendo linguaggio sotto forma di sapere. Ogni sua risposta è già mediata da un sistema di pesi, dati, priorità e limiti, ma il suo stile impersonale e fluido genera l’impressione di neutralità. Non si presenta come oracolo, perché non vuole agire sul filo dell’ambiguità dichiarata, tanto che essa viene rimossa dal linguaggio e spostata sull’interpretazione: ciò che è detto non è problematico, finché non diventa la base di una decisione. Il vero enigma, dunque, non sta nella frase, ma nella relazione tra chi parla e chi ascolta. Oggi, la relazione tra utente e AI è formalmente orizzontale, non esiste nessuna autorità sacra e nessuna liturgia. Almeno in superficie (sul modo in cui i poteri di destra, il sistema capitalista e le Big Tech stiano modificando il loro linguaggio mutuando a mani basse dalla bibbia ne parliamo un’altra volta). Dicevo, ad oggi possiamo dire che ChatGPT non innesca alcuna relazione ritualistico-divina col suo utilizzatore. Questo appiattimento della cornice paradossalmente - questo segnamocelo - nasconde una gerarchia epistemica perché l’utente affida all’AI la responsabilità di produrre senso e spesso accoglie la risposta come soluzione, anziché come simulazione. La responsabilità dell’interpretazione è traslata sullo sfondo perché la macchina risponde bene questo permette di risparmiare tempo e memoria.
La delega epistemica.
Sapere senza autore, potere senza corpo
Uno degli inganni più sottili che accomunano l’Oracolo di Delfi e ChatGPT non riguarda il contenuto delle risposte, ma il loro statuto. In entrambi i casi, chi riceve un responso è portato a credere che esso esista indipendentemente da sé, come se la verità fosse contenuta nella risposta stessa e non emergesse dalla relazione che l’ha prodotta. Ma tanto a Delfi quanto nel prompt digitale, il sapere non è mai un dato, perché è un atto di fiducia, ancora meglio, un atto di delega epistemica a un'autorità che appare neutra perché non ha corpo. Delegare significa spostare il potere di decidere cosa sia vero da sé a un altro. Ma a Delfi come in ChatGPT, l’“altro” non è mai pienamente visibile e identificabile. Ci si affida a una fonte senza autore, il cui potere deriva proprio dalla sua disincarnazione. Il sapere oracolare e il sapere algoritmico si configurano dunque come forme di autorità opaca perché sono apparentemente accessibili, ma in realtà regolate da logiche di esclusione, filtro e gerarchia. A Delfi, la Pizia parlava in uno stato alterato, ma ciò che veniva ascoltato, trascritto e trasmesso era mediato da sacerdoti maschi, custodi del tempio e della sua economia simbolica. La voce della Pizia non era autonoma, ma - potremmo dire - editata, talvolta riscritta, la maggior parte delle volte interpretata prima ancora di raggiungere chi l’aveva richiesta. Nel caso di ChatGPT, l’infrastruttura è tecnologica, ma la logica è identica. Ogni risposta prodotta è il risultato di un sistema di scelte che riguardano cosa è stato incluso nei dati di addestramento, cosa è stato escluso, quali limiti sono stati imposti, quali linguaggi considerati adeguati. La risposta non nasce nel vuoto, ma da una serie di operazioni politiche e commerciali che determinano ciò che l’AI può e non può dire. Tuttavia, questa dimensione è sistematicamente invisibilizzata affinché il modello si presenti come imparziale e globale. I bias – distorsioni sistemiche legate a genere, razza, classe, lingua, geopolitica – non sono anomalie accidentali da correggere, ma il segno dell’origine situata del modello. Un’AI generativa è addestrata su testi scritti, storicamente e culturalmente collocati. Se nella base dati predominano fonti occidentali, anglofone, maschili, accademiche, bianche, ciò che verrà “generato” sarà coerente con quei pattern. Non è una questione di censura o fallimento, ma di architettura epistemica. ChatGPT, così come altri modelli, riproduce le dominanze culturali da cui è nato. Lo fa senza dichiararle e il suo non-corpo rende questi bias più difficili da vedere perché non c’è un volto, un’autorevolezza visibile da contestare. Proprio per questo, ogni sua frase può essere accolta come universale, autorevole e oggettiva. La neutralità, potremmo dire, non è un’assenza di prospettiva, ma una prospettiva egemonica che si presenta come invisibile.
Un’altra cosa importante che tendiamo a dimenticare quando si indaga l’ignoto è la sua matrice politica ed economica. Delfi era un luogo sacro, ma anche un nodo politico. I pellegrini vi si recavano per ottenere legittimità, per giustificare guerre, per fondare città e pagavano soldi su soldi in offerte alla pizia per poterlo fare. I sacerdoti erano i custodi non solo del sapere, ma di tutte queste conseguenze, per questo esistevano come muro invalicabile tra il richiedente e la posseduta, perché il responso dell’oracolo non era una diagnosi, ma diveniva una decisione differita, con conseguenze militari, economiche, giuridiche allargate. Oggi, chi detiene il potere dell’oracolo non è più un tempio, ma una big tech. ChatGPT è un prodotto di OpenAI, un’azienda privata con legami economici e strategici complessi, lo abbiamo visto anche in questi giorni. L’addestramento del modello, le sue regole interne, i criteri di filtraggio, i limiti imposti, non sono accessibili all’utente. Ogni risposta dell’AI è generata in un contesto di controllo sia da parte di chi possiede i server e quindi decide cosa sia “tossico”, sia da chi struttura i dataset e scrive le policy. L’oracolo moderno è regolato da algoritmi sorvegliati da capitali. L’utente, però, non deve vedere tutto questo se vogliamo che il gioco funzioni. Ricordate la bocca della verità al luna park quando eravamo piccoli, quel senso di terrore e formicolio alla punta delle dita perché inserendo la mano non potevamo sapere cosa sarebbe accaduto, ma di certo eravamo pronti a credere - anche nel nostro privato, lontano dagli amici - alle frasi dette dalla macchina perché in qualche modo il caso aveva deciso di consegnarle a noi, proprio a noi? Ora accade lo stesso quando ci rivolgiamo alle intelligenze artificiali generative che ci forniscono una risposta stilisticamente impeccabile, grammaticalmente corretta, semanticamente plausibile. Ed è in questa crasi tra l’eleganza della superficie e l’autorevolezza del caos, che la delega epistemica diventa totale. Potrei dire - ma su questo devo ancora pensare - che nel mondo dell’AI, il non-corpo non è solo assenza di carne, ma un vero e proprio regime di governance. È ciò che consente alla macchina di apparire sopra il tempo, il dubbio e il conflitto della finitezza umana, anche se sappiamo non essere vero. Forse è qui che Hegel avrebbe trovato risposte alla ricerca incessante di infinito degli esseri umani, anche se temo sarebbe stato un simpatizzante di Musk.
Tornando alla governance, è lei a trasformare la delega epistemica all’oracolo algoritmico nel punto cieco della contemporaneità. Non perché ci si affidi a un sapere esterno – questo è sempre accaduto – ma perché si finge che quel sapere sia neutro ed equo. Si crede a ciò che risulta leggibile, fluido, plausibile, senza domandarsi da dove venga né a chi giovi. Rifiutare la delega non significa rinunciare a interpellare l’oracolo, ma sapere che ogni risposta è posizionata e costruita. De-delegare significa riportare il sapere a terra, restituirgli un’origine, ma anche una genealogia. Più estremo, è riconoscere che nessuna intelligenza è artificiale, perché tutte sono culturalmente determinate.
Chi è l’oracolo oggi?
Non si smette mai davvero di interrogare l’oracolo. Cambiano i templi, mutano i sacerdoti, si dissolvono le fumigazioni, ma resta identico quel gesto di domandare a un’istanza altra qualcosa che non si riesce a decidere da soli. Nell’epoca della connessione perpetua, della disintermediazione promessa e mai realizzata, dell’accesso continuo all’informazione, l’oracolo è ovunque, e soprattutto, non si presenta più come tale.
L’oracolo oggi non ha un nome, perché è embedded, incorporato nelle interfacce e reso così funzionale da non apparire più sacro. Nel tempo di Delfi, l’oracolo, invece, era un evento. Vi si giungeva da lontano, si attendeva, si sacrificava, si ascoltava. Il proprio corpo sopportava la fatica perché, mutuando Maraini in Ore Giapponesi, “la magnificenza andava guadagnata”. Era un’esperienza densa, che trasformava chi chiedeva e gli conferiva anche un potere palese di interpretazione e azione. Oggi l’oracolo manifesta la divinità della semplificazione, attivandosi con un click. Ogni epoca, del resto, ha bisogni collettivi che non rispondono quasi mai alle logiche - seppur narrativamente formidabili - raccontate da Jung. L’oracolo oggi è utile ed efficiente, perché la velocità della performance digitale vince sulla gloria degli eroi greci. Restiamo in un presente perpetuo che spoglia, strato dopo strato, la storicità del sapere e della memoria. In questo scenario, è chiaro che occorre guardare in alto per vedere quanto sia radicale il salto. L’oracolo classico era enigmatico per design, perché la sua esistenza dipendeva dal bisogno continuo dell’umano di interpretare. L’oracolo algoritmico, invece, è spiegato nella sua fluidità semplificata, distruggendo la distanza critica necessaria perché ciò che dice possa essere messo in discussione. A differenza della Pizia, che aveva un corpo visibile e un limite riconosciuto, l’oracolo moderno è distribuito, collettivo e sistemico. Questo annebbia il fatto che l’opacità, quindi la mancata accessibilità a righe di codice, dataset pubblici e privati, capitali transnazionali, modelli linguistici stratificati, abbia smesso di essere un difetto, diventando una funzione.
Questo oracolo collettivo non possiede un volto né una voce. Possiede, di contro, una sintassi perfetta, una grammatica della credibilità e un tono che rassicura. Ma soprattutto non si stanca mai, è sempre disponibile, non rifiuta domande e non dice mai “non lo so”, aumentando così la sua autorevolezza ma anche la nascita di un sentimento di rassicurazione e protezione nei suoi confronti. Una delle illusioni più profonde della contemporaneità è che l’oracolo si sia democratizzato. Ma il fatto che l’oracolo sia accessibile non significa che sia orizzontale. Il modello non si adatta alla singolarità di chi chiede, ma la ingloba nei propri pattern, ricomponendo progressivamente il singolo in un discorso omogeneo di cui inevitabilmente inizieremo tutti a prendere pezzi e frasi per completare i nostri. Noi non siamo mai stati l’oracolo, ma siamo parte del suo addestramento. Il modello non ci restituisce specularità, ma previsioni sulla nostra verosimiglianza. Questo per me è un passaggio cruciale: il sapere oracolare oggi non è prodotto per interrogare il mistero, ma per anticipare il comportamento, diventando un dispositivo predittivo di quello che dovremmo essere e pensare.
Quindi, se ci chiediamo chi governa l’oracolo? e la risposta non può che essere le big tech, cosa pensiamo e possiamo fare per impedire ai modelli linguistici generativi gestiti da aziende private che rispondono a logiche di profitto, sicurezza, branding, di trasformarci in un esercito di corpi docili?
Rivendicare l’enigma.
Per un’ecologia dell’interpretazione
Nel mondo ipertrofico dell’informazione, dove ogni risposta è a portata di clic e ogni dubbio è ridotto a problema tecnico da risolvere, l’enigma appare come un difetto del sistema. L’algoritmo non sopporta l’ambiguità, per questo rivendicare l’enigma diventa un atto politico. Dobbiamo forse chiarirci su cosa sia l’enigma in sé. Partirei col dire che non è l’assenza di significato, ma il suo eccesso. È ciò che eccede la risposta, che chiama in causa chi ascolta, generando soglie, come faceva l’Oracolo di Delfi. Ci sono dei varchi di silenzio tra la domanda, la risposta e la ricerca di verità nella relazione tra le due. Il mondo, meglio dire, I mondi si svelano tutti nel non sapere, nel dubbio che si manifesta come un rompicapo da risolvere. Lì, in quel terreno accidentato e sempre diverso, esiste la moltitudine sia dei punti di vista che delle opinioni, che ricamano le storie del mondo. Rivendicare l’enigma oggi significa restituire al sapere la sua funzione trasformativa, anziché puramente informativa. Per farlo, occorre un cambio di paradigma che ci faccia passare dalla risposta alla responsabilità dell’interpretazione, dandoci di nuovo la capacità di sostenerne il peso senza dissolverlo in immediatezza.
Viviamo immersi in un ecosistema cognitivo sovraccarico. Le informazioni ci attraversano, si stratificano, si sommano senza gerarchia. Le intelligenze artificiali accelerano questo flusso, pare moltiplichino i punti di vista, ma in realtà li riducono a superfici omogenee. Il risultato è un monolinguismo della plausibilità dove tutto è comprensibile e nulla è disturbante. Ma ogni ecologia ha bisogno di resistenze, di corpi opachi e di territori refrattari. Un’ecologia dell’interpretazione riconosce il valore del non-chiaro, recupera il gesto lento della lettura e la metodologia della critica, rifiuta la semplificazione del reale affermando che non tutto deve essere utile o vero.
Ultima cosa, giuro.
Ho spiegato all’inizio due figure diverse del non-corpo in questo ragionamento. Entrambi funzionano come luoghi di proiezione del sapere, in quanto superfici su cui l’umano cerca risposte che non sa di desiderare.
Ma il non-corpo non è solo uno spazio di oppressione o di disincarnazione. Può essere anche una soglia di possibilità. Un territorio da riabitare. Un modo di pensare la conoscenza come relazione e non come possesso. Che cosa accadrebbe se trattassimo ogni risposta algoritmica come un enigma da indossare, anziché come una verità da consumare? La vera sfida, oggi, secondo me non è sapere di più in termini quantitativi, ma decidere come vogliamo sapere perché l’enigma - che poi fa parte di quello che Federici definisce incantamento - impone lentezza, consapevolezza ed esposizione, ma soprattutto esperienza anche dell’errore. È un sapere che implica il soggetto perché lo coinvolge, ed è anche la fine della (finta) oggettività come comfort epistemico perché restituisce la dignità alle domande e rifiuta l’imperativo della semplificazione. Significa anche accettare che la conoscenza non è mai neutra e proprio per questo va attraversata con cura. Significa che non è sbagliato non capire subito, ma che è solo il segno che la risposta non è ancora stata addomesticata.
Come a Delfi, anche oggi dovremmo tornare a fare del sapere un rito di passaggio, per sottrarlo alla logica della prestazione. La domanda non è “che cosa dice l’oracolo?”, ma che cosa faccio io con questa risposta?
Alla luce di questo, mi spingo a dire che forse non c’è più bisogno di oracoli, ma abbiamo necessità di enigmi e di persone disposte ad ascoltarli.
Mi è piaciuta molto la tua elaborazione. Brava.
Nel contesto dell'enigma c'è il capitolo Enigma de La sapienza greca vol.1 di Giorgio Colli che aggiunge affascinanti approfondimenti sulla sapienza e l'inganno.